il bello è semplicemente l’inizio del terribile che molti di noi appena sopportano
Rainer Maria Rilke
Vorrei affrontare il tema dell’ansia e della creatività come due istanze che fanno parte dell’esistere nel tempo. Lavoro con il teatro con adolescenti da alcuni anni, ho lavorato con l’uso della voce e del corpo in passato e ancora questi sono due strumenti che amo e che spesso mi accompagnano nel lavoro con le persone.
Vorrei affrontare il tema dell’ansia e della creatività come psicologa interessata all’arte. Sono interessata a ricercare come la creazione e la creatività siano due forme di esistenza per l’anima e diano forma all’individualità, che altro non è che un’esperienza da vivere nell’incontro con l’esterno e con la diversità degli altri.
L’ansia ha sempre rappresentato un tema forte della mia vita e per questo mi ci avvicino volentieri anche nel lavoro. L’ansia è un’emozione che fa parte della famiglia della paura, che annuncia un pericolo, che spinge alla fuga e all’evitamento.
La paura e il dolore sono infatti due emozioni che l’essere umano regge poco volentieri e a cui cerca di porre fine il prima possibile. Così l’ansia, appena annusata, si tenta di sfuggirla con mille comportamenti compensativi che sottraggano a questo stato di scomodità a cui spesso non si sa dare forma e nome. Questi comportamenti allontanano dalla fonte della paura e del dolore, ma non curano le ferite del dolore, ne’ danno rassicurazione alla paura. Fanno rimandare in un susseguirsi ciclico di situazioni che si ripetono.
Nella mia esperienza personale e in quella professionale considero l’ansia un bene, ma in dosi sostenibili per l’organismo. Se non c’è per niente, c’è una sorta di stasi; se c’è ne è troppa, si arriva ad una immobilità o vorticosità centripeta che comunque porta a stasi.
Il mondo psichico interno è complesso e difficilmente prevedibile, ma sicuramente ha delle sue regole interne secondo le quali, come un motore, funziona, oppure si inceppa, si pianta. Per ognuno, queste linee invisibili di movimento interno oppure di stasi sono diverse.
Sicuramente hanno comunque a che fare con un ritmo interno che ognuno, se si ascolta, riconosce e può imparare a ballarci sopra. Ognuno ha un ritmo interno diverso, ma ci sono soglie sotto e sopra le quali tutti vanno in una sorta di discontatto interno e di apatia.
Troppa lentezza e troppa velocità spostano dall’area in cui ci si può accordare e allineare con noi stessi, con le nostre emozioni, le nostre sensazioni, pensieri, e da cui possiamo spiccare il volo verso un’azione che dia forma alla nostra intenzione del momento. Troppa lentezza immobilizza, troppa velocità corre oltre la nostra anima e non permette di percepire, di accorgersi di cosa ci sta succedendo dentro e di cosa succede intorno.
L’ansia fa paura, mette in uno stato di frenesia, di smarrimento, gli occhi sembrano sgranati e sbarrati, le mani il corpo si contorcono e il movimento pare diventi a volte lento a volte attraversato da linee divergenti e spezzate che schizzano fuori da se’.
Chiunque si sia mai accostato a qualunque processo creativo e pratica espressiva come il canto, la danza, il teatro, la scrittura, conosce bene il tormento tra il volere e il riuscire. Si ha bisogno a volte di molto tempo per trovare quello stato psicofisico che permette al processo creativo di prendere forma.
Lontano dal concetto romantico dell’ispirazione dell’artista che scrive o dipinge rapito dal daimon, voglio dire che il lavoro artigianale per accostarsi alle faccende artistiche richiede proprio di passare attraverso quegli ostacoli interni che l’ansia e altre questioni simili pongono sul cammino.
Il punto interessante è comunque che non ti puoi imporre di aprire la gola per cantare bene, o rilassare il corpo per danzare, o lasciarti andare per recitare, bisogna entrare in relazione con quello che c’è in quel momento e attraversare quello stato che fa da ostacolo, con dolcezza.
Si tratta di trovare un altro tipo di forza che non sia quella dell’imposizione, o dell’autocritica, o del punto di principio, ma una forza della debolezza, riconoscendo quell’ansia, quel limite, quella difficoltà, quella paura. Cioè di trovare dei metodi di contrattazione interna per convincere il proprio corpo e se stessi a rimanere in quello stato scomodo che crea ansia di fronte alla fonte di paura, di senso di smarrimento, di impotenza.
In Gestalt si lavora non contro le difese, ma con le difese della persona. Si rispettano e si va insieme a loro, accompagnando la persona per mano a visitare i luoghi dell’ansia.
L’ansia porta ad irrigidire il corpo, lo sguardo, i pensieri e a non vedere altro se non quello che fa paura e a cui spesso non sa dare nome. Nell’ansia non ci si accorge di quello che viene di nuovo e non si è molto in grado di accogliere nuove possibilità, paralizzati in una paura di fare peggio, di sbagliare, di rovinare più in basso.
Il lavoro in terapia va nella direzione di dare una sponda, un argine al fiume in piena che tracima. I confini e gli argini danno rassicurazione alla paura senza nome, o con un nome troppo grande da poter essere maneggiato.
Si tratta di tornare a dare oggetto all’ansia e confine all’orizzonte interno. Allora l’ansia può sciogliersi in pianto o infiammarsi in rabbia, prendendo la forma dell’emozione sottostante che ha bisogno di emergere in primo piano dallo sfondo, per poter essere vissuta e portare i suoi frutti esistenziali alla persona, che in questo modo ricostituisce la trama di senso e significato della sua vita in quel momento.
Ognuno ha un rapporto diverso con la sua ansia e con cosa ne fa della sua ansia, quanto la riesce a tollerare e quali strumenti ha per averci a che fare e per farci qualcosa di costruttivo per la sua esistenza. Cosa farne è comunque uno sforzo creativo e cosciente.
Sarebbe interessante se ognuno di noi si fermasse a pensare a cosa gli succede quando a poco a poco si formano come dal nulla le proprie onde dell’ansia, creando da un mare piatto un mare in tempesta. E cosa succede nel proprio corpo quando queste onde arrivano, ce le teniamo dentro facendoci venire dolori vari, le buttiamo fuori facendoli venire agli altri, riusciamo a farne qualcosa di buono per noi, o sbrodoliamo in comportamenti che poi sono fonte di complicazione e pentimenti più che di soddisfazione.
Ognuno ha degli andamenti ciclici con cui amministra la propria paura /ansia. Questi automatismi sono quelli che ci imprigionano in qualcosa che il più delle volte non decidiamo ma che decide per noi. Sono gli automatismi caratteriali che spesso determinano la ricorrenza dei comportamenti compensatori che mettiamo in atto per evitare e allontanarci dalle peste.
Nella mia esperienza personale e di lavoro, è abbastanza chiaro che l’ansia porta spesso ad un’interruzione del contatto se non viene ascoltata, e ad un ripiegamento su se stessi di poco aiuto, dove si cerca solo di sentire meno male possibile.
Quando per esempio accetto di sentire il dolore, oltre l’ansia, o la paura di fare qualcosa che per ragioni caratteriali non vorrei mai fare e a cui il mio corpo stesso si ribella, allora riconosco che sto entrando in un contatto generativo con me stessa che da qualche parte mi può condurre, cioè accetto che qualcosa muova verso un cambiamento nella mia vita.
Da lì in poi comincia un senso di vitalità, come se l’anima respirasse, riprendesse fiato e spazio di esistere.
In genere a quel punto mi accorgo che esiste il cielo e un pochino mi arrendo.
Da qui cominciano a sgorgare le lacrime, o le lingue di fuoco, o la nostalgia, o la tenerezza, o il dispiacere per qualcosa di fatto o di non fatto, ma qualcosa prende forma, prende vita, c’è un pulsare insieme alla nostra esistenza a cui apparteniamo e alla vita che ancora chiama da fuori ad essere incontrata.
Associazioni, ricordi, emozioni, urla, lacrime, tutto fa parte di un pentolone che bollendo conduce ad una azione, gesto nel mondo circostante che segna una nuova direzione della nostra vita, che cuce un altro pezzetto della nostra trama ricamata.
Questo ritengo succeda se l’ansia la cavalchiamo come un cavallo che ci toglie dall’apatia del lasciarsi vivere, del non volere niente di più di quello che ci arriva nei luoghi sicuri, conosciuti e caldi della nostra esistenza.
L’ansia in genere proprio perché fa paura, perché è uno sguardo fugace sull’abisso, viene evitata o trattata come una malattia, come un sintomo da cancellare.
In Gestalt i sintomi sono segnali di disagio e si lavora per scioglierli in un dialogo, in quella che viene chiamata dialettizzazione del sintomo, cioè individuare e riconoscere pari dignità alle voci/polarità che si sono congelate in quella forma.
Sciogliendo il sintomo in una danza di più parti che si muovono e indicano direzioni diverse, l’ansia non è più un problema da cancellare, ma una mano che indica la direzione in cui andare.
L’ansia chiama dunque al cambiamento, indica la direzione della vitalità, che il nostro equilibrio organismico chiede in quel momento per adattarsi al nostro esistere nel tempo e nello spazio.
L’ansia contiene al suo interno al tempo stesso la paralisi e la via d’uscita dal labirinto. Contiene la paura e il desiderio, l’eccitazione, come due facce della stessa medaglia.
Quando qualcosa fa paura abbiamo due scelte del corpo, tenerci indietro evitando oppure sporgerci verso, andando incontro. Come sulle montagne russe: se ti tieni indietro stai malissimo, ma se ti sporgi in avanti vieni colto dall’eccitazione e dall’ebbrezza del vento e del vuoto allo stomaco in picchiata, scagliandosi giù lungo quegli stretti binari per poi rispiccare il volo in salita.
Per me l’uscita dall’ansia è un movimento fuori da se’, è un cedere al limite alla finitezza del proprio essere, e della propria esistenza, al bisogno di movimento della vita verso la morte per poter essere vivi.
È cedere all’idea che, come dice Merleau Ponty in Fenomenologia della percezione, “La soggettività non è l’identità immobile con se’: per essere soggettività, le è essenziale, così come è essenziale al tempo, aprirsi a un Altro e uscire da se’. Non dobbiamo rappresentarci il soggetto come costituente e la molteplicità delle sue esperienze o dei suoi Erlebnisse come costituiti.”
Ciò che facciamo creativamente ci plasma e crea il senso della nostra esistenza.
Questa è una via d’uscita possibile alla disgregazione di senso che l’ansia porta con se’.
È uno sguardo sull’abisso, sulla consapevolezza che non possiamo fermare il fiume in cui stiamo discendendo la vita, non possiamo avere il controllo quasi di nulla, salvo che delle nostre intenzioni e scelte.
Ansia chiama verso un assoluto ideale, in cui ci possa esistere qualcosa di giusto per essere giusti: il limite è l’inesistenza dell’assoluto, e la frustrazione che questo da’ è il motore stesso della creazione.
Stando in questo contenitore arriva l’eccitazione dell’avventura di vivere e di creare qualcosa che prima non c’era, sia un’opera d’arte, sia nella vita quotidiana un incontro con una persona.
Per chiunque il campo quotidiano di creazione che richiede molta creatività sono proprio le relazioni umane con le persone conosciute e quelle che si potrebbero conoscere allargando il nostro raggio di azione.
Visto che noi stessi esistiamo secondo l’ottica esistenzialista e fenomenologica , nella relazione intersoggettiva che è creazione.
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